In attesa di quell'attimo

Dopo anni dedicati in qualche modo alla fotografia capita di avere la sensazione che ci sia qualcosa che non va, qualcosa che disturba, che ti rende insofferente: troppi scatti, trappa compulsione, poca osservazione ma, su tutto, poca attesa.

Sì, attesa. Quell'attesa tanto cara a Henri Cartier-Bresson, che separa la (pre)visione dallo scatto che già sapevamo come sarebbe risultato.

È merito di conversazioni nate per caso con persone che condividono la tua stessa passione e magari conosciute in contesti che non ti aspetteresti che i dubbi si sciolgono. E così una chiaccherata fiume con un'appassionata con un occhio ed una sensibilità formidabili, un inaspettato scambio di opinioni con un esperto di sicurezza informatica conosciuto ad un hack camp e che vuole costruirsi una scanner camera, e ti ritrovi a capire cosa stesse rovinando il tuo amore per la fotografia.

Le idee adesso sono più chiare: osservare di più, scattare meno.

In fotografia una delle migliori palestre è senza dubbio la quotidianità: raccontare qualcosa di interessante attraverso la vita di tutti i giorni, la routine, la banalità.

Magari un evento in cui non ti aspetti di trovare delle situazioni talmente eccezionali da essere significanti senza ricerca, qualcosa tipo un saggio di danza.

Un saggio di danza: un evento che in molti cercherebbero di evitare come la peste ed invece può essere l'occasione giusta per mettere in pratica tutto questo. Osservare i movimenti dei ballerini, capirne le gesta, intuire l'evoluzione del loro corpo per essere lì pronto a scattare nell'esatto momento in cui il gesto è al suo apice.

Chissà, magari adesso tornerò a sentire di nuovo quella voglia di fotografare, di cercare di raccontare qualcosa che avevo un tempo e, per dirla come un mio amico, "io ci provo ma badate che è solo fortuna".

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